senza apprendere le cause di questo,
della libertà del capitale condividono
la rabbiosa volontà di soppravvivenza. [...]"
"Ogni Stato è una dittatura."
"I farmaci macroeconomici somministrati dalle banche
centrali, più che medicine,
sono antidolorifici ad alto tasso di dipendenza.
Più simili al Vicodin che agli antibiotici, insomma."
In questo primo capitolo abbiamo
intenzione di proporre alcuni spunti di discussione riguardanti
l'organizzazione dello Stato italiano e le sue trasformazioni.
Inizieremo questo percorso con una contestualizzazione
dell'evoluzione storica e di fase. In seguito proveremo a leggere
alcune linee di tendenza che, aperte ormai da tempo, iniziano a
compiersi definitivamente sui nostri territori (neoliberismo,
cessione di sovranità, spiccata autonomia del politico,
riorganizzazione autoritaria dello stato ecc... ecc...). In questo
senso inseriremo il discorso sul referendum costituzionale
dell'autunno, cercando di approfondire uno sguardo di parte capace di
cogliere le tensioni nella società rispetto a questi progetti. In
una seconda parte che pubblicheremo successivamente affronteremo
nello specifico alcuni focus: il rapporto tra moneta, finanza e
stato, la ricaduta della governance sui territori e lo scontro tra i
poteri dello stato.
L'ipotesi rivoluzionaria viene quindi riassorbita dal PCI e
canalizzata nella riuscita della ricostruzione dell'Italia del
dopoguerra, mediante una teoria del sacrificio e del lavoro che pesava
prevalentemente sulla classe operaia, fulcro della ricostruzione.
Le tensioni sul territorio italiano però restano evidenti, palesate da alcuni fenomeni di rigetto che si diedero in tutto il paese, da nord a sud.
Una nuova esplosione sociale destabilizzante per lo Stato italiano si ebbe nel 1960 a Genova, con la nascita di un nuovo soggetto rivoluzionario che si consolidò poi con gli scontri di piazza Statuto a Torino del 1962. L'impostazione dello Stato non era cambiata dalla fine della guerra, ma si stava dando un soggetto rivoluzionario imprevisto, con nuove forme di vita e portatore soprattutto di un rifiuto di quell'etica del lavoro e del sacrificio sui quali si era data la ricostruzione del paese e il consolidamento del nuovo assetto statuale. Sia Genova che Torino furono tappe fondamentali poiché segnarono la fine di un certo modo di vivere e di intendere il lavoro e segnò anche l'inizio della sfiducia della classe operai verso i partiti, in particolare il PCI. I lavoratori infatti rifiutavano il lavoro in cambio di migliori condizioni salariali, ma per il raggiungimento di un diverso ritmo di vita, dove la centralità assoluta non spettasse al lavoro, ma dove tempo libero e divertimento rappresentano delle prerogative.
Nello specifico, le giornate di Genova rappresentano - quando meno nel pretesto della mobilitazione - anche il rifiuto categorico del rientro formale dei quadri fascisti all'interno della vita del paese. Nella giornate di piazza Statuto invece si palesa, forse per la prima volta, l'estraneità di questo soggetto alle logiche partitiche, contravvenendo i dictat del PCI, estraneo in qualche modo a quella piazza. Si colgono in questo periodo fuoriuscite dal PCI e la tendenza a sperimentare nuove forme di organizzazione della classe,base per l'esplosione poi degli anni '70.
L'alterità latente nel paese, nonché le necessità del capitale, portano ad una ristrutturazione del sistema produttivo in termini neoliberisti, portando l'Italia ad essere un delle maggiori potenze mondiali. Dagli anni '70 lo Stato inizia un processo di ristrutturazione, che si darà propriamente alla fine di quel decennio, teso ad indebolire la classe operaia e il loro potere nelle fabbriche, anche con modalità molto dure, quale la meccanicizzazione della produzione, un controllo ferreo degli operai nelle fabbriche, la nascita dell'operaio sociale, la messa a valore della metropoli e la prima prova di finanziarizzazione dell'economia.
A livello di politica interna, si vive un periodo molto turbolento, scandito da tentati golpe ed episodi che portano ad un aumento del potere repressivo dello Stato.
Con gli anni 1975-76 lo Stato vive la crisi economica dettata dal potere del petrolio, la cui violenza consegue alla dipendenza tra paesi innescata dal processo di apertura del mercato. Tale crisi, da un lato, rappresenta una possibilità di ristrutturazione, mentre dall'altra fa riesplodere gli animi ormai sopiti dai tempi della fine del ciclo dei gruppi extraparlamentari, i quali spariscono quasi completamente a favore di nuove forme organizzative, promotrici di rivendicazioni e modi di vita innovativi vicini ad un nuovo soggetto centrale. Questo nuovo soggetto, composto prevalentemente da giovani operai emigrati dal sud, costretti ad una vita al limite delle città e scandita unicamente dai tempi di lavoro, era portatore di una forza di rottura molto elevata capace realmente di bloccare e mettere in crisi i meccanismi capitalistici.
Con la fine del ciclo di lotte degli anni '70 e la sconfitta della classe operaia, lo Stato apporta un'effettiva accelerazione della ristrutturazione capitalistica durante gli anni '80 e '90. Nonostante ciò, si presentano in questo periodo delle forze incanalate in cicli di lotta che limitano nel ventennio '90-2000 alcune tendenze strettamente neoliberiste.
La grande occasione di parte
capitalista che rimette tutto in gioco, come dicevamo su è la crisi
del 2008. Immediata è l'accellerazione, con tagli al welfare, privatizzazioni e austerity, le classi medie vengono schiacciate verso il basso, la piccola industria smantellata scientificamente e i settori popolari in resistenza vengono sbaragliati, dispersi e lasciati senza bussola dalle incapacità e dalla colpevole volontà dei corpi intermedi riformisti, partiti e sindacati. Il doppio processo di attacco alle conquiste proletarie e di risoggettivazione sortisce i suoi effetti e il paese, a differenza degli altri PIGS, rimane silente salvo qualche piccola e virtuosa scaramuccia.
Se il compiersi sul piano materiale
del neoliberismo economico inizia con la crisi, la sua
corrispondenza istituzionale è emergenziale e informale per lungo
tempo. Lo Stato d'emergenza nel nostro paese ha invece una storia
molto più antica: l'Italia unita vede il suo sorgere proprio in
questo paradigma. La colonizzazione del sud, l'invasione armata, la
sua spoliazione, la narrazione colonialista, la guerra al
brigantaggio saranno poi strumenti di controllo e dominio del
meridione che perdurerranno fino ai giorni nostri e che via via
verranno espansi alle periferie del paese. La storia delle
istituzioni italiane è una storia di stati d'emergenza, in risposta
ai conflitti di classe, in seguito a catastrofi naturali e shock
economici. La democrazia borghese e liberale già dal suo sorgere
nasce monca e incapace di farsi strumento reale di governo proprio
per le pressioni della soggettività proletaria.
Dunque, se riconosciamo fenomeni di debolezza della tenuta di alcune forme classicamente intese dello Stato (fra le più lampanti e attenzionate le rivendicazioni di regionalismo e/o federalismo e l’apparente crisi in cui pongono il concetto di sovranità - argomento su cui torneremo più avanti), non possiamo negare che esse si accompagnino ad un speculare irrigidimento autoritario del controllo sul territorio e da una tendenza alla centralizzazione delle forme di governo.
È una polarizzazione che possiamo ritrovare trasversalmente nell’Unione Europea tanto quanto internamente ai singoli stati membri, in un flusso scalare dal livello locale a quello regionale. Non affermiamo niente di nuovo dicendo che centralizzazione e tecnologie di governo si rafforzano nello stato neoliberista: banalmente, ci sembra si stia palesando il tentativo di chiudere quella parabola di lungo termine che ha legato forma Stato e capitalismo globale e che ha sempre esplicitamente cercato di omologare lo stadio di ristrutturazione capitalistica dei paesi europei - formalmente indifferente delle resistenze e degli ostacoli interni.
Possiamo quindi affermare l’esistenza di un canale di influenza reciproca fra l’effettiva capacità di governabilità europea, quella dei singoli stati membri e i territori con i quali si instaurano effettivamente questi rapporti di potere? Possibile. Soprattutto nel momento in cui gli elementi solitamente additati quali sintomi della crisi dello Stato moderno sono in realtà riscontrabili trasversalmente in differenti tipi di istituzioni. Per esempio, in quale direzione si snoda il filo rosso che lega l’insolubile deficit di democraticità delle istituzioni europee - a causa del quale non si è mai riusciti ad inscenare il copione illusorio della rappresentatività - e i recenti ostacoli nel formare governi, se non stabili quanto meno duraturi, tramite gli strumenti classici della democrazia (non a caso, in paesi in cui tale scoglio è posto anche da un non-esaurimento dei movimenti e da rivendicazioni forti dal basso, quali Spagna, Grecia, Italia)?
Riprendendo il nostro ragionamento, ribadendo che la funzionalità al capitalismo è connaturato nello
sviluppo della forma Stato, riconosciamo anche l’esistenza di eterogeneità già date tra Stato e capitale. Il controllo che lo Stato esercita sul territorio tramite una comunità si contrappone infatti alla permanente deterritorializzazione del mercato globale, che perlopiù non può far riferimento ad una specifica e reale comunità di persone. Eppure, è imprescindibile sottolineare che se questa integrazione porta a delle frizioni fra elementi strutturali, lo fa esclusivamente nel momento in cui il capitale necessita dello Stato all’interno del suo dispositivo di potere.
Nello specifico in Europa, assistiamo ad uno Stato che viene definito in crisi, ma che si fa sempre più interventista nel salvare le banche, facendo pagare il prezzo di questi salvataggi alla società. Nell’era del governo tramite il debito, l’integrazione della forma Stato nel capitale si è acuita con la falsa panacea di crescente immissione di moneta nei mercati. Questo è la marca di fabbrica della politiche della Bce, nonché quella che è sempre stata la politica inflazionistica americana.
Non possiamo dimenticare in questo processo il livello di garanzia concesso all’Italia - per la posizione intermedia tra il ruolo di bacino di piccole imprese di fornitura alle grandi imprese tedesche e di partner commerciale con paesi ultra-neoliberalizzati e quello speculare di esportatore e committente rispetto a paesi in cui la ristrutturazione capitalistica si è inserita più tardi nella storia e con maggior violenza (in primis i paesi dell’area balcanica) - che ha comportato una maggiore centralità nelle politiche di quantitative easing, ossia un tipo di impegno maggior che in altri casi (quale quello greco) per salvaguardare l’arginamento del debito pubblico in tempo di crisi.
Tornando su quanto già evidenziato, il Referendum costituzionale si inserisce proprio in questo corridoio di ristrutturazione del capitale come definitiva messa sul mercato del debito italiano, che il capitale vuole rendere più attrattivo rispetto agli investitori tramite una promozione della time based competition, ossia l’ampiezza e la velocità con cui interessi esterni possono influire sulle decisioni politiche interne. Nell’ottica finanziaria, la tenuta della moneta unica europea non può contare solo sulle promesse di Draghi e sulla straordinarietà delle manovre della Bce (non prolungabili all’infinito), ma necessita ora nello specifico da parte del sistema italiano di un’effettiva apertura agli interessi internazionali, tanto quanto di una dimostrazione garantista di stabilità da parte del governo interno.
In questa cornice, che evolve storicamente a partire dalla sconfitta politica del lavoro, continua ad oggi un attacco per abbassare indistintamente gli stili di vita. In una realtà dei fatti di crescente polarizzazione sociale, per permettere un continuo e corrosivo adeguamento al ribasso delle forme di vita, diventa maggiormente necessaria una conformità di governo e una centralizzazione dei processi decisionali, che nella nostra zona-mondo ha trovato spunto di realizzazione nell’integrazione europea.
Si inserisce in questa centralizzazione europea (fisicamente dislocata nel nord del mondo) dell’esecutivo - deregolamentatrice in ambito economico, conformatrice rispetto all’universo sociale - la ristrutturazione strategica degli apparati statali di magistratura e polizia. Non a caso, dall’ultimo ciclo di mobilitazioni dell’Onda in poi abbiamo assistito ad un veloce evolversi della gestione di piazza da parte della polizia italiana, in termini retorici di lezione nordica appresa da quel sud un po’ arretrato, un po’ dal cuore paternalista e dal manganello facile (eppure l’innovamento della polizia italiana non si esaurisce nelle nuove tecnologie informatiche!).
Parallelamente, si accompagna - e ci sembra evidenza tangibile nel nostro paese - un’elevata velleità di razionalizzare la gestione della giustizia interna ad opera di una magistratura che vede aprirsi, nell’omologazione agli standard europei, l’occasione per strutturarsi come casta indipendente dal potere che alcune declinazione dell’esecutivo mantengono e dal potere cui ambisce invece una parte emergente del comparto amministrativo.
Abbiamo già sopra ricordato l’inevitabile distanza temporale dei posteri, che si fa necessaria per leggere il più ampiamente possibile fenomeni complessi, tanto quelli incentrati intorno alla nostra specifica soggettività, quanto quelli derivanti da una ristrutturazione a onde lunghe del capitale.
Nonostante ciò, sentiamo comunque la necessità di provare a leggere una serie di processi in atto - se non addirittura nella fase di primo sviluppo - tramite le coordinate che abbiamo appena tratteggiato. L’accentramento e l’irrigidimento dell’esecutivo che abbiamo più volte evidenziato nelle righe precedenti ci sembra incrociato orizzontalmente da due fuochi.
Aumenta, da una parte, la pressione di specifiche rivendicazioni regionali in termini di autonomia o federalismo. Con rimando a quanto già scritto, non è un fenomeno che possiamo interpretare come semplice discesa del potere dall’alto verso il territorio in cerca di un controllo più aderente alle specificità locali, né una concessione verso i cittadini in un processo di crescente democratizzazione. Partendo sempre dal perno dei concreti assetti produttivi, si svela così l’emersione dei regionalismi come una specifica richiesta di potere - in senso di prossimità - ricercata tramite un rifiuto delle istituzioni (pensiamo agli esempi delle borghesie imprenditoriali di medio livello della Catalogna e della Scozia).
Senza pretendere di dichiarare risolto un ambito di approfondimento che qui è solo abbozzato, ci sembra di poter raccogliere nuovamente quel filo da tessere che avevamo scorto nella matassa. In questo bisogno di prossimità infatti, lungo la storia di una forma Stato che abbiamo già definito dispositivo di potere per il capitale, ecco aprirsi lo spazio per inserirci, ecco apparire una crepa da forzare, il rampino con cui strappare realmente frammenti di potere.
Ecco perché, lo diciamo candidamente, non possiamo digerire un certo discorso sul diventare "banda di trasmissione tra i cittadini e le istituzioni", non in un mondo in cui è proprio questa banda di trasmissione - questo flusso scalare - che permette al capitale di accedere con corsia privilegiata alle nostre forme di vita.
Affermiamo ciò, forti di aver scorto il barlume di un altro fuoco che mette alle strette la capacità reale
della governabilità che vorremmo strappare alla controparte. Ci riferiamo ad una pressione che ultimamente non viene dal nostro angolo, di fronte alla quale alcuni di noi possono storcere il naso, che a volte può addirittura essere colta con maggior lungimiranza da personaggi politici che sono nostri espliciti avversari (e di cui mai smetteremo di smentire gli interessi di parte - non la nostra), ma che è espressione di un rifiuto - perché no, disilluso - rispetto ad ogni ulteriore forma di promessa istituzionale e di una significativa reattività ad un immaginario forte di riscatto soggettivo immediato.
Già si sono espresse le critiche di populismo di fronte al radicamento del m5s nelle metropoli (senza essere fraintesi, si potrebbe parlare altrettanto di Lega Nord in alcune province), ma se ci diamo come chiave di lettura di questo radicamento la specifica retorica antipolitica così come è stata percepita dalla società, non possiamo non vedere una disponibilità reale alla lotta di cui molti lamentano la mancanza. A maggior ragione con la prospettiva di voler giocare una partita di reale ingovernabilità in vista del Referendum, dobbiamo smettere di guardare il demagogo in cima al palco e osservare le persone che vi stanno sotto, consapevoli che è lì che si annida la forza capace di ribaltare qualsiasi palcoscenico.
Questo aumento delle misure di austerità anche se si desse con forme differenti, che all'oggi non sono da escludere, ci restituisce un'esemplificazione di come il meccanismo della governabilità si stia in qualche modo trasformando, completando le trasformazioni neoliberiste. La revisione della carta costituzionale costituirebbe in questo caso un chiaro passo verso un'ulteriore cessione di sovrenità alle istituzioni europee, demolendo ancor di più gli spazi di mediazione della rappresentanza democatica, favorendo dall'altro lato una governabilità all'oggi in crisi.
L'obbiettivo che ci poniamo è quello
di consegnare alcune ipotesi di lavoro che non si rinchiudano nella
descrizione piana dell'evoluzione dell'organizzazione delle
istituzioni, ma che ci permettano di cogliere alcuni punti di
frizione, linee di tendenza e criticità dell'agire dentro il
contesto che abbiamo davanti.
Una storia di contrapposizioni
Con la fine della seconda guerra
mondiale non era affatto chiara la direzione in cui si sarebbero
consolidati gli assetti istituzionali. Spinte contraddittorie e a
volte contrapposte si presentavano su uno scenario unico. Gli
occupanti americani da un lato e la resistenza partigiana dall'altro
rappresentano i due grandi attori di questo momento. Mentre ancora la
guerra era in corso, a tutti gli effetti si profilavano sul
territorio nazionale diversi embrioni di futuribili modelli
organizzativi dello stato. Nell'immediato dopoguerra la spartizione
in blocchi del mondo vide l'Italia rientrare nel campo di influenza
occidentale, guidato dagli Stati Uniti. Con la svolta di Salerno e la
rinuncia del PCI all'opzione rivoluzionaria vengono poste le basi per
la ricostruzione dello stato. Questo processo è però costretto a
confrontarsi con la minaccia latente costituita dall'enorme forza
delle lotte operaie e contadine che, sospinte dalle aspettative di
cambiamento radicale della lotta partigiana, non sempre si
conformavano al dettato riformista del partito.
Le epurazioni dei partigiani dai corpi
di polizia, l’amnistia di Togliatti prepararono il terreno alla
riorganizzazione dello stato a partire da una carta costituzionale di
compromesso. Un compromesso non tra classi sociali, ma tra i maggiori
partiti del dopoguerra.
Le tensioni sul territorio italiano però restano evidenti, palesate da alcuni fenomeni di rigetto che si diedero in tutto il paese, da nord a sud.
Una nuova esplosione sociale destabilizzante per lo Stato italiano si ebbe nel 1960 a Genova, con la nascita di un nuovo soggetto rivoluzionario che si consolidò poi con gli scontri di piazza Statuto a Torino del 1962. L'impostazione dello Stato non era cambiata dalla fine della guerra, ma si stava dando un soggetto rivoluzionario imprevisto, con nuove forme di vita e portatore soprattutto di un rifiuto di quell'etica del lavoro e del sacrificio sui quali si era data la ricostruzione del paese e il consolidamento del nuovo assetto statuale. Sia Genova che Torino furono tappe fondamentali poiché segnarono la fine di un certo modo di vivere e di intendere il lavoro e segnò anche l'inizio della sfiducia della classe operai verso i partiti, in particolare il PCI. I lavoratori infatti rifiutavano il lavoro in cambio di migliori condizioni salariali, ma per il raggiungimento di un diverso ritmo di vita, dove la centralità assoluta non spettasse al lavoro, ma dove tempo libero e divertimento rappresentano delle prerogative.
Nello specifico, le giornate di Genova rappresentano - quando meno nel pretesto della mobilitazione - anche il rifiuto categorico del rientro formale dei quadri fascisti all'interno della vita del paese. Nella giornate di piazza Statuto invece si palesa, forse per la prima volta, l'estraneità di questo soggetto alle logiche partitiche, contravvenendo i dictat del PCI, estraneo in qualche modo a quella piazza. Si colgono in questo periodo fuoriuscite dal PCI e la tendenza a sperimentare nuove forme di organizzazione della classe,base per l'esplosione poi degli anni '70.
L'alterità latente nel paese, nonché le necessità del capitale, portano ad una ristrutturazione del sistema produttivo in termini neoliberisti, portando l'Italia ad essere un delle maggiori potenze mondiali. Dagli anni '70 lo Stato inizia un processo di ristrutturazione, che si darà propriamente alla fine di quel decennio, teso ad indebolire la classe operaia e il loro potere nelle fabbriche, anche con modalità molto dure, quale la meccanicizzazione della produzione, un controllo ferreo degli operai nelle fabbriche, la nascita dell'operaio sociale, la messa a valore della metropoli e la prima prova di finanziarizzazione dell'economia.
A livello di politica interna, si vive un periodo molto turbolento, scandito da tentati golpe ed episodi che portano ad un aumento del potere repressivo dello Stato.
Con gli anni 1975-76 lo Stato vive la crisi economica dettata dal potere del petrolio, la cui violenza consegue alla dipendenza tra paesi innescata dal processo di apertura del mercato. Tale crisi, da un lato, rappresenta una possibilità di ristrutturazione, mentre dall'altra fa riesplodere gli animi ormai sopiti dai tempi della fine del ciclo dei gruppi extraparlamentari, i quali spariscono quasi completamente a favore di nuove forme organizzative, promotrici di rivendicazioni e modi di vita innovativi vicini ad un nuovo soggetto centrale. Questo nuovo soggetto, composto prevalentemente da giovani operai emigrati dal sud, costretti ad una vita al limite delle città e scandita unicamente dai tempi di lavoro, era portatore di una forza di rottura molto elevata capace realmente di bloccare e mettere in crisi i meccanismi capitalistici.
Con la fine del ciclo di lotte degli anni '70 e la sconfitta della classe operaia, lo Stato apporta un'effettiva accelerazione della ristrutturazione capitalistica durante gli anni '80 e '90. Nonostante ciò, si presentano in questo periodo delle forze incanalate in cicli di lotta che limitano nel ventennio '90-2000 alcune tendenze strettamente neoliberiste.
La via italiana al neoliberismo
Bisogna fare una premessa: l'alba di un
sistema compiutamente neoliberale in Italia è tarda. Se si vuole
dirla fino in fondo bisognerebbe chiedersi se deve ancora venire. I
motivi che ci spingono a fare questa considerazione sono molteplici
e ci torneremo anche nei prossimi scritti, in questo ci limitiamo
ad affermare, dato l'ambito di ragionamento, che non si sono
ancora coerentemente solidificate istituzioni neoliberali. In parole
povere stiamo vivendo, forse proprio in questi tempi, la transizione
che porterà a tutti gli effetti i dispositivi dello Stato a
ridefinirsi in tale direzione. Subito sorgono due domande dunque:
quali caratteristiche potrebbe assumere nel nostro paese questa
ipotesi di governo, e in secondo luogo, quali sono i freni, gli
ostacoli passati, presenti e futuri al compiersi di questa
ristrutturazione?
Crediamo che sia presuntuoso pensare
di poter rispondere, di certo non è possibile farlo in queste
pagine, ma vediamo la necessità di fare un duplice esercizio:
storicizzare e provare a individuare delle tendenze. Se assumiamo la
tesi di uno stato neoliberale non ancora compiuto tocca provare a
rileggere la storia recente e discutere i motivi di questo “ritardo”.
La retorica di parte totalmente capitalista dell'arretratezza ci
fa ridere per la sua ipocrisia. Quale governo degli ultimi
trent'anni perlomeno avrebbe potuto dimostrarsi di per sé ostile alla
ventata di “modernizzazione”?
Ancora una volta, pensiamo,
questa anomalia è da considerarsi frutto del conflitto di
classe, dispiegato o meno, che ha attraversato il nostro paese, e in
secondo luogo delle caratteristiche dell'intera società,
ridefinitasi negli anni '80.
Se guardiamo su una scala più
grande (possibile forse solo oggi) la sconfitta dei movimenti degli
anni '70 e ciò che è accaduto dopo in Italia possiamo cogliere
un'angolatura differente. L'intuizione prodigiosa di individuare
nelle trasformazioni del sistema capitalista una nuova figura, quale
quella dell'operaio sociale era stata quanto mai precisa. E in
effetti sarà questa figura a generare i conflitti e animare
le lotte che si dispiegheranno per decenni, dopo il '77. Già le
lotte ambientali degli anni '80 e poi i cicli contro le riforme
dell'istruzione e del lavoro, contro la guerra e la globalizzazione
continueranno a vedere protagonisti questi soggetti (però non
temete, più in làpolemizzeremo con il “cognitarismo” e il
“precarismo” che ritiravano un passo da una proposta
potenzialmente più ampia e profonda). In parte anche alcuni settori
residui del lavoro operaio classico continueranno a produrre
resistenze e freni, in alcuni casi vere e proprie battute d'arresto,
ai processi di innovazione e ulteriore sfruttamento capitalista. Il
conflitto diffuso, a volte disorganizzato e magmatico che si è
prolungato per anni ha rallentato e inceppato la macchina della
ristrutturazione. Almeno fino allo scoppiare della crisi del 2008. In
effetti il movimento dell'Onda, e in particolare nelle punte del 2010
è l'ultimo significativo momento di mobilitazione di questi settori
in maniera estensiva e potente. Forse anche il canto del cigno prima
di subire delle radicali trasformazioni soggettive? Ci torneremo. In
qualche modo si può ipotizzare che il mettersi ciclicamente in
movimento di questa composizione abbia anche sospinto in avanti la
consistente classe media italiana, ripetiamo, fino alla cesura della
crisi.
Ci pare credibile quindi affermare
che la presenza di un certo antagonismo dispiegato e latente
abbia rallentato per anni la marcia della ristrutturazione.
D'altro canto ci tocca anche
applicare uno sguardo leggermente diverso su uno dei protagonisti
dell'epoca dicui stiamo parlando, si intende Berlusconi. Sì,
proprio lui! Infatti il suo modello di governo impostato su una base
di consenso fondata principalmente di una galassia di piccola
imprenditoria, di classe media e di settori popolari spoliticizzati
collideva non poco con una possibilità di capitalismo avanzato. Sia
chiaro, ci vengono i brividi anche solo a pensare di riabilitarlo in
qualche modo, ma bisogna oggettivamente considerare che con la tutela
dei suoi interessi e degli interessi del suo elettorato di
riferimento egli abbia rappresentato comunque un tappo, fatto saltare
nel momento incui risultava ormai insostenibile. In qualche modo a
conferma di ciò le riforme di quegli anni (come quella dell'articolo
V ad esempio) più violente in termini di liberalizzazione del mondo
del lavoro e del bene pubblico sono arrivate dai rari anni di governo
del centrosinistra italiano scopertosi di colpo a stelle e strisce.
Con queste due considerazioni
non abbiamo intenzione di dire che dei movimenti dall'alto
nella direzione di un potenziamento dell'economia neoliberista e di
riforma dello stato non ci siano stati, ma piuttosto che si siano
distesi nel tempo.
Ci viene da dire che la lenta manovra
di ristrutturazione delle istituzioni parte da quell'ambito centrale
nella società capitalistica che è la scuola e l'università, cioè
dalla formazione delle punte della soggettività. Qui i processi di
riforma, di tecnicizzazione, di ridefinizione dei saperi e del loro
uso sono persistenti e violenti. In qualche modo la ristrutturazione
del mondo della formazione rispondeva e risponde a un doppio
obbiettivo: destrutturare le avanguardie di lotta che si formano
dentro questo campo e riaddattare la soggettività al nuovo ruolo
che gioca l'Italia negli scenari internazionali. Questo è il vero e
proprio principio di un lavoro di ri-soggettivazione dall'alto
affiancato dal ruolo dei media e dai salti tecnologici degli anni
novanta. Su questo tema si sono spese molte parole e ci sembra
superfluo approfondire in questo luogo il tema. Magari più avanti
si affronterà.
del 2008. Immediata è l'accellerazione, con tagli al welfare, privatizzazioni e austerity, le classi medie vengono schiacciate verso il basso, la piccola industria smantellata scientificamente e i settori popolari in resistenza vengono sbaragliati, dispersi e lasciati senza bussola dalle incapacità e dalla colpevole volontà dei corpi intermedi riformisti, partiti e sindacati. Il doppio processo di attacco alle conquiste proletarie e di risoggettivazione sortisce i suoi effetti e il paese, a differenza degli altri PIGS, rimane silente salvo qualche piccola e virtuosa scaramuccia.
Possiamo ipotizzare che oggi ci sia il
primo tentativo di solidificare un progetto istituzionale
neoliberale attraverso il referendum costituzionale? Crediamo di
sì. Renzi ha già agito informalmente accentrando il potere sul
governo, forzando strumenti istituzionali e provando a indebolire la
forza del parlamento. Il tentativo è quello di fluidificare gli
iter legislativi, di ridurre sempre di più i dispositivi
statuali italiani a direzione amministrativa di decisioni che
vengono prese in Europa. Più stabilità e più accentramento dei
poteri per far diventare in qualche modo l'esecutivo il cane pastore
che dirige il flusso.
Il contesto europeo, i processi locali
Proviamo ora ad allargare lo sguardo e puntare l’obiettivo sullo Stato nel
quadro europeo, se non in quel centro-mondo occidentale (o
occidentalizzato), la cui immagine sembra altalenarsi tra irrigidimenti
autocratici e debacle in termini di autorevolezza. Premessa: nell’osservare
i tempi contemporanei, non ci sembra di trovare nella realtà
circostante un concreto riscontro dell’accademicamente propagandata
“crisi dello Stato nazione”, quanto meno non nella misura di validità
strutturale che questa retorica vorrebbe avere.
Non sarà questa la sede in cui approfondiamo la costruzione
della Nazione come astratto e generico espediente a vocazione emotiva e
del suo utilizzo nel consolidamento dello Stato democratico-liberale.
Ripartiamo piuttosto dal vagliare lo stato di salute dello Stato come
forma di governo, ribadendo prima di ogni altra considerazione che gli
assetti formali che osserviamo nella sfera statale sono determinati da
quegli assetti produttivi e finanziari, che ad oggi non possono non
essere analizzati in un quadro altamento interconnesso (sia a livello
regionale che globale).Dunque, se riconosciamo fenomeni di debolezza della tenuta di alcune forme classicamente intese dello Stato (fra le più lampanti e attenzionate le rivendicazioni di regionalismo e/o federalismo e l’apparente crisi in cui pongono il concetto di sovranità - argomento su cui torneremo più avanti), non possiamo negare che esse si accompagnino ad un speculare irrigidimento autoritario del controllo sul territorio e da una tendenza alla centralizzazione delle forme di governo.
È una polarizzazione che possiamo ritrovare trasversalmente nell’Unione Europea tanto quanto internamente ai singoli stati membri, in un flusso scalare dal livello locale a quello regionale. Non affermiamo niente di nuovo dicendo che centralizzazione e tecnologie di governo si rafforzano nello stato neoliberista: banalmente, ci sembra si stia palesando il tentativo di chiudere quella parabola di lungo termine che ha legato forma Stato e capitalismo globale e che ha sempre esplicitamente cercato di omologare lo stadio di ristrutturazione capitalistica dei paesi europei - formalmente indifferente delle resistenze e degli ostacoli interni.
Possiamo quindi affermare l’esistenza di un canale di influenza reciproca fra l’effettiva capacità di governabilità europea, quella dei singoli stati membri e i territori con i quali si instaurano effettivamente questi rapporti di potere? Possibile. Soprattutto nel momento in cui gli elementi solitamente additati quali sintomi della crisi dello Stato moderno sono in realtà riscontrabili trasversalmente in differenti tipi di istituzioni. Per esempio, in quale direzione si snoda il filo rosso che lega l’insolubile deficit di democraticità delle istituzioni europee - a causa del quale non si è mai riusciti ad inscenare il copione illusorio della rappresentatività - e i recenti ostacoli nel formare governi, se non stabili quanto meno duraturi, tramite gli strumenti classici della democrazia (non a caso, in paesi in cui tale scoglio è posto anche da un non-esaurimento dei movimenti e da rivendicazioni forti dal basso, quali Spagna, Grecia, Italia)?
Riprendendo il nostro ragionamento, ribadendo che la funzionalità al capitalismo è connaturato nello
sviluppo della forma Stato, riconosciamo anche l’esistenza di eterogeneità già date tra Stato e capitale. Il controllo che lo Stato esercita sul territorio tramite una comunità si contrappone infatti alla permanente deterritorializzazione del mercato globale, che perlopiù non può far riferimento ad una specifica e reale comunità di persone. Eppure, è imprescindibile sottolineare che se questa integrazione porta a delle frizioni fra elementi strutturali, lo fa esclusivamente nel momento in cui il capitale necessita dello Stato all’interno del suo dispositivo di potere.
Nello specifico in Europa, assistiamo ad uno Stato che viene definito in crisi, ma che si fa sempre più interventista nel salvare le banche, facendo pagare il prezzo di questi salvataggi alla società. Nell’era del governo tramite il debito, l’integrazione della forma Stato nel capitale si è acuita con la falsa panacea di crescente immissione di moneta nei mercati. Questo è la marca di fabbrica della politiche della Bce, nonché quella che è sempre stata la politica inflazionistica americana.
Non possiamo dimenticare in questo processo il livello di garanzia concesso all’Italia - per la posizione intermedia tra il ruolo di bacino di piccole imprese di fornitura alle grandi imprese tedesche e di partner commerciale con paesi ultra-neoliberalizzati e quello speculare di esportatore e committente rispetto a paesi in cui la ristrutturazione capitalistica si è inserita più tardi nella storia e con maggior violenza (in primis i paesi dell’area balcanica) - che ha comportato una maggiore centralità nelle politiche di quantitative easing, ossia un tipo di impegno maggior che in altri casi (quale quello greco) per salvaguardare l’arginamento del debito pubblico in tempo di crisi.
Tornando su quanto già evidenziato, il Referendum costituzionale si inserisce proprio in questo corridoio di ristrutturazione del capitale come definitiva messa sul mercato del debito italiano, che il capitale vuole rendere più attrattivo rispetto agli investitori tramite una promozione della time based competition, ossia l’ampiezza e la velocità con cui interessi esterni possono influire sulle decisioni politiche interne. Nell’ottica finanziaria, la tenuta della moneta unica europea non può contare solo sulle promesse di Draghi e sulla straordinarietà delle manovre della Bce (non prolungabili all’infinito), ma necessita ora nello specifico da parte del sistema italiano di un’effettiva apertura agli interessi internazionali, tanto quanto di una dimostrazione garantista di stabilità da parte del governo interno.
In questa cornice, che evolve storicamente a partire dalla sconfitta politica del lavoro, continua ad oggi un attacco per abbassare indistintamente gli stili di vita. In una realtà dei fatti di crescente polarizzazione sociale, per permettere un continuo e corrosivo adeguamento al ribasso delle forme di vita, diventa maggiormente necessaria una conformità di governo e una centralizzazione dei processi decisionali, che nella nostra zona-mondo ha trovato spunto di realizzazione nell’integrazione europea.
Si inserisce in questa centralizzazione europea (fisicamente dislocata nel nord del mondo) dell’esecutivo - deregolamentatrice in ambito economico, conformatrice rispetto all’universo sociale - la ristrutturazione strategica degli apparati statali di magistratura e polizia. Non a caso, dall’ultimo ciclo di mobilitazioni dell’Onda in poi abbiamo assistito ad un veloce evolversi della gestione di piazza da parte della polizia italiana, in termini retorici di lezione nordica appresa da quel sud un po’ arretrato, un po’ dal cuore paternalista e dal manganello facile (eppure l’innovamento della polizia italiana non si esaurisce nelle nuove tecnologie informatiche!).
Parallelamente, si accompagna - e ci sembra evidenza tangibile nel nostro paese - un’elevata velleità di razionalizzare la gestione della giustizia interna ad opera di una magistratura che vede aprirsi, nell’omologazione agli standard europei, l’occasione per strutturarsi come casta indipendente dal potere che alcune declinazione dell’esecutivo mantengono e dal potere cui ambisce invece una parte emergente del comparto amministrativo.
Abbiamo già sopra ricordato l’inevitabile distanza temporale dei posteri, che si fa necessaria per leggere il più ampiamente possibile fenomeni complessi, tanto quelli incentrati intorno alla nostra specifica soggettività, quanto quelli derivanti da una ristrutturazione a onde lunghe del capitale.
Nonostante ciò, sentiamo comunque la necessità di provare a leggere una serie di processi in atto - se non addirittura nella fase di primo sviluppo - tramite le coordinate che abbiamo appena tratteggiato. L’accentramento e l’irrigidimento dell’esecutivo che abbiamo più volte evidenziato nelle righe precedenti ci sembra incrociato orizzontalmente da due fuochi.
Aumenta, da una parte, la pressione di specifiche rivendicazioni regionali in termini di autonomia o federalismo. Con rimando a quanto già scritto, non è un fenomeno che possiamo interpretare come semplice discesa del potere dall’alto verso il territorio in cerca di un controllo più aderente alle specificità locali, né una concessione verso i cittadini in un processo di crescente democratizzazione. Partendo sempre dal perno dei concreti assetti produttivi, si svela così l’emersione dei regionalismi come una specifica richiesta di potere - in senso di prossimità - ricercata tramite un rifiuto delle istituzioni (pensiamo agli esempi delle borghesie imprenditoriali di medio livello della Catalogna e della Scozia).
Senza pretendere di dichiarare risolto un ambito di approfondimento che qui è solo abbozzato, ci sembra di poter raccogliere nuovamente quel filo da tessere che avevamo scorto nella matassa. In questo bisogno di prossimità infatti, lungo la storia di una forma Stato che abbiamo già definito dispositivo di potere per il capitale, ecco aprirsi lo spazio per inserirci, ecco apparire una crepa da forzare, il rampino con cui strappare realmente frammenti di potere.
Ecco perché, lo diciamo candidamente, non possiamo digerire un certo discorso sul diventare "banda di trasmissione tra i cittadini e le istituzioni", non in un mondo in cui è proprio questa banda di trasmissione - questo flusso scalare - che permette al capitale di accedere con corsia privilegiata alle nostre forme di vita.
Affermiamo ciò, forti di aver scorto il barlume di un altro fuoco che mette alle strette la capacità reale
della governabilità che vorremmo strappare alla controparte. Ci riferiamo ad una pressione che ultimamente non viene dal nostro angolo, di fronte alla quale alcuni di noi possono storcere il naso, che a volte può addirittura essere colta con maggior lungimiranza da personaggi politici che sono nostri espliciti avversari (e di cui mai smetteremo di smentire gli interessi di parte - non la nostra), ma che è espressione di un rifiuto - perché no, disilluso - rispetto ad ogni ulteriore forma di promessa istituzionale e di una significativa reattività ad un immaginario forte di riscatto soggettivo immediato.
Già si sono espresse le critiche di populismo di fronte al radicamento del m5s nelle metropoli (senza essere fraintesi, si potrebbe parlare altrettanto di Lega Nord in alcune province), ma se ci diamo come chiave di lettura di questo radicamento la specifica retorica antipolitica così come è stata percepita dalla società, non possiamo non vedere una disponibilità reale alla lotta di cui molti lamentano la mancanza. A maggior ragione con la prospettiva di voler giocare una partita di reale ingovernabilità in vista del Referendum, dobbiamo smettere di guardare il demagogo in cima al palco e osservare le persone che vi stanno sotto, consapevoli che è lì che si annida la forza capace di ribaltare qualsiasi palcoscenico.
Referendum o barbarie
Continuando ad intersecare lo
sguardo soggettivo ad una dimensione più strutturale dello
stato italiano, riteniamo necessario provare a calare questi
ragionamenti nel passaggio del referendum costituzionale, il quale
rappresenta un punto di passaggio nella restrutturazione dello Stato
nel suo addattarsi alla dimensione della crisi capitalistica.
La tornata referendaria che
probabilmente caratterizzerà l'autunno, potrebbe rimescolare le
carte di una partita iniziata con i goveni tecnici di Monti e Letta,
che hanno lasciato ben poche possibilità per i movimenti.
Sintetizzando, come già accenato, la
riforma costituzionale mira a snellire i processi decisionali e
legislativi cercando di abbreviare i tempi e l'efficacia
dell'esecutivo. Il tentativo in campo è quello di accentrare
il potere attorno al governo demolendo de facto l'impostazione data
dalla carta costituzionale.
In sostanza l'obbiettivo più o
meno palese è quello di portare avanti dei piani di riforma, dal
welfare al lavoro, che con questo sistema potrebbero incorrere in
parecchi intoppi parlamentari e in tempi lunghi per essere
realizzate. Abbreviare l'iter di una legge vuol dire anche diminuire
le possibilità di esprimere e organizzare un rifiuto sociale.
È abbastanza coerente l'immagine
di questa riforma come un cavallo di Troia, che in realtà cela
una probabile tornata di riforme lacrime e sangue.
Voluto fortemente dai vertici
del governo europeo e della Bce, la riforma è il prezzo da pagare
per non subire trattamenti visti già, per esempio, nella questione
greca.
Con il peggiorare delle condizioni
del sistema bancario italiano queste pressioni europee non potranno
che aumentare aprendo scenari che per l'Italia si erano intravisti
all'inizio del governo Monti. Infatti, con l'aprirsi di quella fase e
con l'arrivo di Renzi a palazzo Chigi, per via della difficile
governabilità dovuta agli assetti elettorali, la messa in campo di
grosse riforme di austerity si era dovuta di fatto diluire nel tempo.
Questa necessità ripropostasi negli ultimi due anni ha portato il
governo a varare il pacchetto di riforme Jobs Act - Sblocca Italia - Buona scuola le quali rendono bene l'idea di quale sia la
necessità strutturale di tagliare drasticamente i costi “sociali”
dello Stato italiano e il meccanismo di disciplinamento della forza
lavoro, sia nella diemsione classica che in quella del precariato più
o meno giovane.
Questo aumento delle misure di austerità anche se si desse con forme differenti, che all'oggi non sono da escludere, ci restituisce un'esemplificazione di come il meccanismo della governabilità si stia in qualche modo trasformando, completando le trasformazioni neoliberiste. La revisione della carta costituzionale costituirebbe in questo caso un chiaro passo verso un'ulteriore cessione di sovrenità alle istituzioni europee, demolendo ancor di più gli spazi di mediazione della rappresentanza democatica, favorendo dall'altro lato una governabilità all'oggi in crisi.
La direzione dello Stato
ridefinisce dall'alto, in modo non lineare, i rapporti di forza
tra il proletariato e la grande borghesia italiana, polarizzando un
campo che negli ultimi decenni era caratterizzato dalla mediazione
piuttosto che dall'imposizione e dallo scontro.
Questa aggressione parte però da un
controutilizzo di un concetto quale "l'antipolitica".
Il rifiuto radicale delle istituzioni dello Stato e ciò che esso
rappresenta negli ultimi anni si è radicalizato e diffuso.
Quasto ha portato il baricentro della partita del consenso
sempre più sulla possibilità o meno di rappresentare una rottura
con il passato e lo status quo.
La riforma costituzionale veste i
panni di un attacco alla casta e di una riduzione dei costi
della politica, ed aldilà della riuscita o no di questo gioco
di prestigio, è chiaro che il consenso a questo modello di Stato è
più che mai in crisi.
Si può dire che la
dimensione dell'antipolitica e dell'antagonismo alle istituzioni
statali sia il carattere principale delle classi subalterne e
rappresenti in qualche modo un punto di arrivo della crisi di
mediazione in corso negli ultimi decenni.
In questo senso possiamo vedere
questo carattere della composizione come una forza (antagonista) che
non è rimasta immobile e continuerà a determinare fortemente la
politica italiana. Nella possibilità di poter essere cambiata di
segno, rappresenta nella sua ambiguità, una tendenza da curvare in
senso rivoluzionario o un arma regalata al nemico.
Potenzialmente quando questa pulsione
è esplosa in questi anni, aprendo delle seppur piccole finestre
di conflitto reale, come possono essere state le rivolte dei
forconi, l'abbiamo vista trasformarsi in istanze di cambiamento
forti. Il fatto che, non solo in queste occasioni ma anche nel senso
comune, la sfiducia nello Stato si traduca con la parola Rivoluzione,
è un segnale della portata che può dispiegarsi nel
campo dell'antagonismo.
Allo stesso tempo questa tendenza
sta trasformando la soggettività, cancellando praticamente le possibilità di una
nuova mediazione, perchè la sua spinta è talmente forte da agire
sia dal basso, che all'inverso nella spinta che arriva dall'alto
come risposta.
Una sorta di cortocircuito dello
Stato che mostra forse un irrigidimento e che disegna
sempre di più campi contrapposti, invertendo una tendendenza che
continuava da tempo. Se da un lato è più facile vedere i lineamenti
della classe, dall'altro diventano palesi le strutture repressive e
dello Stato rendendo chiaro il loro ruolo difensivo
dell'attuale organizzazione del lavoro e delle forze
produttive.
Questo tentativo di
ristrutturazione dello Stato si situa in una congiuntura particolare
in cui questa necessità di irrigidimento istituzionale è
accompagnata da una forte debolezza del governo Renzi, sia sul piano
del consenso, che delle lobby che lo hanno sostenuto in questi anni.
Le elezioni amministrative
consegnano di fatto la possibilità reale che in caso di elezioni il
m5s possa arrivare al governo, aprendo scenari inediti che fanno
tremare non poche poltrone a Bruxelles.
Il PD è sempre più chiaramente
il partito della nazione (e della borghesia), e se il centro
destra si allinea, la lega e l'estrema destra non riescono a sfondare
intermini elettorali.
Il progetto di Salvini per ora non
è riuscito. Ad una proposta di guerra tra poveri sembra comunque
tenere una possibilità di rivolgere in modo verticale
l'insopportabilità delle condizioni materiali dettate dalla crisi.
Sembra rompersi
la tendenza dell'aspettativa al ribasso e il clima di rassegnazione
che ha caratterizzato questi ultimi anni, dalla fine dell'Onda ad oggi. C'è, fra la gente, in
maniera confusa e contradditoria, un'aspettativa. Un'aspettativa
di cambiamento: ci si aspetta, anche se attraverso la delega e il
voto o altre forme passive, che qualcosa nelle condizioni di vita
cambi.
È un passaggio importante, forse
solo una finestra di consapevolezza delle classi subalterne, che
però, passando attraverso un referendum costituzionale che si
preannuncia come un plebiscito a Renzi, potrebbe esplodere in una
qualsiasi forma di rifiuto attivo.
Questa dimensione dell'aspettativa
del cambiamento è fondamentale. Sembra scuotere una
soggettività sopita, riplasmata nella crisi, nelle sue retoriche nella distruzione sistematica delle aspettativa di potersi realizzare con questo sistema economico e sociale.
soggettività sopita, riplasmata nella crisi, nelle sue retoriche nella distruzione sistematica delle aspettativa di potersi realizzare con questo sistema economico e sociale.
Ma dove si situa questa
aspettativa? Dove si è aperta la crepa più grossa? Dove non può
più essere ricomposta per loro?
Dal punto di vista della composizione della classe, salta all'occhio una non omogeneità di lettura
di questo passaggio referandario, e con gradualità differenti
sulle direttrici nord-sud, centro-periferia, metropoli-provincia
mutano in modo ragguardevole le aspettative nella possibilità di
mandare a casa Renzi.
In questo senso però come
tendenza generale tra il conscio e l'inconscio ci sembra di scorgere
una spinta verso l'ingovernabilità da parte della classe, la quale
si palesa in compotamenti differenti dal voto a dimensini individuali
di rifiuto o fuga.
Anche se meno influnzata
dalle dinamiche del voto, la dimensione giovanile della classe
potrebbe essere in termini di potenza quella che dentro un meccanismo
di attivazione potrebbe leggere una possibilità di riscatto
dalla dimensione nichilista, autodistruttiva o omologante, che
sta vivendo in questi ultimi anni.
Costruire una comunicabilità del
nostro discorso contro il governo, praticabile dai giovani, capace di
rappresentare una dimensione generazionale ci sembra una sfida da
poter agire dentro il passaggio referendario.
Provando a vedere i mesi
autunnali come un volano per un allargamento del conflitto sociale e
la radicalizzazione del rifiuto al governo e all'Europa,
crediamo si apriranno dei vuoti poltici, che in qualche modo dovranno
colmarsi.
Sfidare il presente rendendo la lotta di
classe e il conflitto un programma capace di riempire questo vuoto che
abbiamo provato a descrivere è, molto probabilente, la chiave per
aprire una possibilità rivoluzionaria.
Oroboro - Alcune note sparse sui tempi che viviamo
Oroboro - Alcune note sparse sui tempi che viviamo