giovedì 29 settembre 2016

Oroboro pt.1 - Stato neoliberale: those lazy italians!

"[...] Del keynesismo essi hanno sofferto solo il fallimento 
senza apprendere le cause di questo,
della libertà del capitale condividono
 la rabbiosa volontà di soppravvivenza. [...]"
"Ogni Stato è una dittatura."
 "I farmaci macroeconomici somministrati dalle banche
centrali, più che medicine,
sono antidolorifici ad alto tasso di dipendenza.
Più simili al Vicodin che agli antibiotici, insomma."

In questo primo capitolo abbiamo intenzione di proporre alcuni spunti di discussione riguardanti l'organizzazione dello Stato italiano e le sue trasformazioni. Inizieremo questo percorso con una contestualizzazione dell'evoluzione storica e di fase. In seguito proveremo a leggere alcune linee di tendenza che, aperte ormai da tempo, iniziano a compiersi definitivamente sui nostri territori (neoliberismo, cessione di sovranità, spiccata autonomia del politico, riorganizzazione autoritaria dello stato ecc... ecc...). In questo senso inseriremo il discorso sul referendum costituzionale dell'autunno, cercando di approfondire uno sguardo di parte capace di cogliere le tensioni nella società rispetto a questi progetti. In una seconda parte che pubblicheremo successivamente affronteremo nello specifico alcuni focus: il rapporto tra moneta, finanza e stato, la ricaduta della governance sui territori e lo scontro tra i poteri dello stato.
L'obbiettivo che ci poniamo è quello di consegnare alcune ipotesi di lavoro che non si rinchiudano nella descrizione piana dell'evoluzione dell'organizzazione delle istituzioni, ma che ci permettano di cogliere alcuni punti di frizione, linee di tendenza e criticità dell'agire dentro il contesto che abbiamo davanti.



Una storia di contrapposizioni
Con la fine della seconda guerra mondiale non era affatto chiara la direzione in cui si sarebbero
consolidati gli assetti istituzionali. Spinte contraddittorie e a volte contrapposte si presentavano su uno scenario unico. Gli occupanti americani da un lato e la resistenza partigiana dall'altro rappresentano i due grandi attori di questo momento. Mentre ancora la guerra era in corso, a tutti gli effetti si profilavano sul territorio nazionale diversi embrioni di futuribili modelli organizzativi dello stato. Nell'immediato dopoguerra la spartizione in blocchi del mondo vide l'Italia rientrare nel campo di influenza occidentale, guidato dagli Stati Uniti. Con la svolta di Salerno e la rinuncia del PCI all'opzione rivoluzionaria vengono poste le basi per la ricostruzione dello stato. Questo processo è però costretto a confrontarsi con la minaccia latente costituita dall'enorme forza delle lotte operaie e contadine che, sospinte dalle aspettative di cambiamento radicale della lotta partigiana, non sempre si conformavano al dettato riformista del partito.
Le epurazioni dei partigiani dai corpi di polizia, l’amnistia di Togliatti prepararono il terreno alla riorganizzazione dello stato a partire da una carta costituzionale di compromesso. Un compromesso non tra classi sociali, ma tra i maggiori partiti del dopoguerra.

L'ipotesi rivoluzionaria viene quindi riassorbita dal PCI e canalizzata nella riuscita della ricostruzione dell'Italia del dopoguerra, mediante una teoria del sacrificio e del lavoro che pesava prevalentemente sulla classe operaia, fulcro della ricostruzione.
Le tensioni sul territorio italiano però restano evidenti, palesate da alcuni fenomeni di rigetto che si diedero in tutto il  paese, da nord a sud.

Una nuova esplosione sociale destabilizzante per lo Stato italiano si ebbe nel 1960 a Genova, con la nascita di un nuovo soggetto rivoluzionario che si consolidò poi con gli scontri di piazza Statuto a Torino del 1962. L'impostazione dello Stato non era cambiata dalla fine della guerra, ma si stava dando un soggetto rivoluzionario imprevisto, con nuove forme di vita e portatore soprattutto di un rifiuto di quell'etica del lavoro e del sacrificio sui quali si era data la ricostruzione del paese e il consolidamento del nuovo assetto statuale. Sia Genova che Torino furono tappe fondamentali poiché segnarono la fine di un certo modo di vivere e di intendere il lavoro e segnò anche l'inizio della sfiducia della classe operai verso i partiti, in particolare il PCI. I lavoratori infatti rifiutavano il lavoro in cambio di migliori condizioni salariali, ma per il raggiungimento di un diverso ritmo di vita, dove la centralità assoluta non spettasse al lavoro, ma dove tempo libero e divertimento rappresentano delle prerogative.

Nello specifico, le giornate di Genova rappresentano - quando meno nel pretesto della mobilitazione - anche il rifiuto categorico del rientro formale dei quadri fascisti all'interno della vita del paese. Nella giornate di piazza Statuto invece si palesa,  forse per la prima volta, l'estraneità di questo soggetto alle logiche partitiche, contravvenendo i dictat del PCI, estraneo in qualche modo a quella piazza. Si colgono in questo periodo fuoriuscite dal PCI e la tendenza a sperimentare nuove forme di organizzazione della classe,base per l'esplosione poi degli anni '70.
L'alterità latente nel paese, nonché le necessità del capitale, portano ad una ristrutturazione del sistema produttivo in termini neoliberisti, portando l'Italia ad essere un delle maggiori potenze mondiali. Dagli anni '70 lo Stato inizia un processo di ristrutturazione, che si darà propriamente alla fine di quel decennio, teso ad indebolire la classe operaia e il loro potere nelle fabbriche, anche con modalità molto dure, quale la meccanicizzazione della produzione, un controllo ferreo degli operai nelle fabbriche, la nascita dell'operaio sociale, la messa a valore della metropoli e la prima prova di finanziarizzazione dell'economia.

A livello di politica interna,  si vive un periodo molto turbolento, scandito da tentati golpe ed episodi che portano ad un aumento del potere repressivo dello Stato.
Con gli anni 1975-76 lo Stato vive la crisi economica dettata dal potere del petrolio, la cui violenza consegue alla dipendenza tra paesi innescata dal processo di apertura del mercato. Tale crisi, da un lato, rappresenta una possibilità di ristrutturazione, mentre dall'altra fa riesplodere gli animi ormai sopiti dai tempi della fine del ciclo dei gruppi extraparlamentari, i quali spariscono quasi completamente a favore di nuove forme organizzative, promotrici di rivendicazioni e modi di vita innovativi vicini ad un nuovo soggetto centrale. Questo nuovo soggetto, composto prevalentemente da giovani operai emigrati dal sud, costretti ad una vita al limite delle città  e scandita unicamente dai tempi di lavoro, era portatore di una forza di rottura molto elevata capace realmente di bloccare e mettere in crisi i meccanismi capitalistici.


Con la fine del ciclo di lotte degli anni '70 e la sconfitta della classe operaia, lo Stato apporta un'effettiva accelerazione della ristrutturazione capitalistica durante gli anni '80 e '90. Nonostante ciò, si presentano in questo periodo delle forze incanalate in cicli di lotta che limitano nel ventennio '90-2000 alcune tendenze strettamente neoliberiste.

La via italiana al neoliberismo 
 
Bisogna fare una premessa: l'alba di un sistema compiutamente neoliberale in Italia è tarda. Se si vuole dirla fino in fondo bisognerebbe chiedersi se deve ancora venire. I motivi che ci spingono a fare questa considerazione sono molteplici e ci torneremo anche nei prossimi scritti, in questo ci limitiamo ad affermare, dato l'ambito di ragionamento, che non si sono ancora coerentemente solidificate istituzioni neoliberali. In parole povere stiamo vivendo, forse proprio in questi tempi, la transizione che porterà a tutti gli effetti i dispositivi dello Stato a ridefinirsi in tale direzione. Subito sorgono due domande dunque: quali caratteristiche potrebbe assumere nel nostro paese questa ipotesi di governo, e in secondo luogo, quali sono i freni, gli ostacoli passati, presenti e futuri al compiersi di questa ristrutturazione?

Crediamo che sia presuntuoso pensare di poter rispondere, di certo non è possibile farlo in queste pagine, ma vediamo la necessità di fare un duplice esercizio: storicizzare e provare a individuare delle tendenze. Se assumiamo la tesi di uno stato neoliberale non ancora compiuto tocca provare a rileggere la storia recente e discutere i motivi di questo “ritardo”. La retorica di parte totalmente capitalista dell'arretratezza ci fa ridere per la sua ipocrisia. Quale governo degli ultimi trent'anni perlomeno avrebbe potuto dimostrarsi di per sé ostile alla ventata di “modernizzazione”?
Ancora una volta, pensiamo, questa anomalia è da considerarsi frutto del conflitto di classe, dispiegato o meno, che ha attraversato il nostro paese, e in secondo luogo delle caratteristiche dell'intera società, ridefinitasi negli anni '80. 

Se guardiamo su una scala più grande (possibile forse solo oggi) la sconfitta dei movimenti degli anni '70 e ciò che è accaduto dopo in Italia possiamo cogliere un'angolatura differente. L'intuizione prodigiosa di individuare nelle trasformazioni del sistema capitalista una nuova figura, quale quella dell'operaio sociale era stata quanto mai precisa. E in effetti sarà questa figura a generare i conflitti  e animare le lotte che si dispiegheranno per decenni, dopo il '77. Già le lotte ambientali degli anni '80 e poi i cicli contro le riforme dell'istruzione e del lavoro, contro la guerra e la globalizzazione continueranno a vedere protagonisti questi soggetti (però non temete, più in làpolemizzeremo con il “cognitarismo” e il “precarismo” che ritiravano un passo da una proposta potenzialmente più ampia e profonda). In parte anche alcuni settori residui del lavoro operaio classico continueranno a produrre resistenze e freni, in alcuni casi vere e proprie battute d'arresto, ai processi di innovazione e ulteriore sfruttamento capitalista. Il conflitto diffuso, a volte disorganizzato e magmatico che si è prolungato per anni ha rallentato e inceppato la macchina della ristrutturazione. Almeno fino allo scoppiare della crisi del 2008. In effetti il movimento dell'Onda, e in particolare nelle punte del 2010 è l'ultimo significativo momento di mobilitazione di questi settori in maniera estensiva e potente. Forse anche il canto del cigno prima di subire delle radicali trasformazioni soggettive? Ci torneremo. In qualche modo si può ipotizzare che il mettersi ciclicamente in movimento di questa composizione abbia anche sospinto in avanti la consistente classe media italiana, ripetiamo, fino alla cesura della crisi. 
Ci pare credibile quindi affermare che la presenza di un certo antagonismo dispiegato e latente abbia rallentato per anni la marcia della ristrutturazione.

D'altro canto ci tocca anche applicare uno sguardo leggermente diverso su uno dei protagonisti dell'epoca dicui stiamo parlando, si intende Berlusconi. Sì, proprio lui! Infatti il suo modello di governo impostato su una base di consenso fondata principalmente di una galassia di piccola imprenditoria, di classe media e di settori popolari spoliticizzati collideva non poco con una possibilità di capitalismo avanzato. Sia chiaro, ci vengono i brividi anche solo a pensare di riabilitarlo in qualche modo, ma bisogna oggettivamente considerare che con la tutela dei suoi interessi e degli interessi del suo elettorato di riferimento egli abbia rappresentato comunque un tappo, fatto saltare nel momento incui risultava ormai insostenibile. In qualche modo a conferma di ciò le riforme di quegli anni (come quella dell'articolo V ad esempio) più violente in termini di liberalizzazione del mondo del lavoro e del bene pubblico sono arrivate dai rari anni di governo del centrosinistra italiano scopertosi di colpo a stelle e strisce. 

Con queste due considerazioni non abbiamo intenzione di dire che dei movimenti dall'alto nella direzione di un potenziamento dell'economia neoliberista e di riforma dello stato non ci siano stati, ma piuttosto che si siano distesi nel tempo.  
Ci viene da dire che la lenta manovra di ristrutturazione delle istituzioni parte da quell'ambito centrale nella società capitalistica che è la scuola e l'università, cioè dalla formazione delle punte della soggettività. Qui i processi di riforma, di tecnicizzazione, di ridefinizione dei saperi e del loro uso sono persistenti e violenti. In qualche modo la ristrutturazione del mondo della formazione rispondeva e risponde a un doppio obbiettivo: destrutturare le avanguardie di lotta che si formano dentro questo campo e riaddattare la soggettività al nuovo ruolo che gioca l'Italia negli scenari internazionali. Questo è il vero e proprio principio di un lavoro di ri-soggettivazione dall'alto affiancato dal ruolo dei media e dai salti tecnologici degli anni novanta. Su questo tema si sono spese molte parole e ci sembra superfluo approfondire in questo luogo il tema. Magari più avanti si affronterà.

La grande occasione di parte capitalista che rimette tutto in gioco, come dicevamo su è la crisi
del 2008. Immediata è l'accellerazione, con tagli al welfare, privatizzazioni e austerity, le classi medie vengono schiacciate verso il basso, la piccola industria smantellata scientificamente e i settori popolari in resistenza vengono sbaragliati, dispersi e lasciati senza bussola dalle incapacità e dalla colpevole volontà dei corpi intermedi riformisti, partiti e sindacati. Il doppio processo di attacco alle conquiste proletarie e di risoggettivazione sortisce i suoi effetti e il paese, a differenza degli altri PIGS, rimane silente salvo qualche piccola e virtuosa scaramuccia.

Se il compiersi sul piano materiale del neoliberismo economico inizia con la crisi, la sua corrispondenza istituzionale è emergenziale e informale per lungo tempo. Lo Stato d'emergenza nel nostro paese ha invece una storia molto più antica: l'Italia unita vede il suo sorgere proprio in questo paradigma. La colonizzazione del sud, l'invasione armata, la sua spoliazione, la narrazione colonialista, la guerra al brigantaggio saranno poi strumenti di controllo e dominio del meridione che perdurerranno fino ai giorni nostri e che via via verranno espansi alle periferie del paese. La storia delle istituzioni italiane è una storia di stati d'emergenza, in risposta ai conflitti di classe, in seguito a catastrofi naturali e shock economici. La democrazia borghese e liberale già dal suo sorgere nasce monca e incapace di farsi strumento reale di governo proprio per le pressioni della soggettività proletaria.


Possiamo ipotizzare che oggi ci sia il primo tentativo di solidificare un progetto istituzionale neoliberale attraverso il referendum costituzionale? Crediamo di sì. Renzi ha già agito informalmente accentrando il potere sul governo, forzando strumenti istituzionali e provando a indebolire la forza del parlamento. Il tentativo è quello di fluidificare gli iter legislativi, di  ridurre sempre di più i dispositivi statuali italiani a direzione amministrativa di decisioni che vengono prese in Europa. Più stabilità e più accentramento dei poteri per far diventare in qualche modo l'esecutivo il cane pastore che dirige il flusso. 


Il contesto europeo, i processi locali

Proviamo ora ad allargare lo sguardo e puntare l’obiettivo sullo Stato nel quadro europeo, se non in quel centro-mondo occidentale (o occidentalizzato), la cui immagine sembra altalenarsi tra irrigidimenti autocratici e debacle in termini di autorevolezza. Premessa: nell’osservare i tempi contemporanei, non ci sembra di trovare nella realtà circostante un concreto riscontro dell’accademicamente propagandata “crisi dello Stato nazione”, quanto meno non nella misura di validità strutturale che questa retorica vorrebbe avere.
Non sarà questa la sede in cui approfondiamo la costruzione della Nazione come astratto e generico espediente a vocazione emotiva e del suo utilizzo nel consolidamento dello Stato democratico-liberale. Ripartiamo piuttosto dal vagliare lo stato di salute dello Stato come forma di governo, ribadendo prima di ogni altra considerazione che gli assetti formali che osserviamo nella sfera statale sono determinati da quegli assetti produttivi e finanziari, che ad oggi non possono non essere analizzati in un quadro altamento interconnesso (sia a livello regionale che globale).
Dunque, se riconosciamo fenomeni di debolezza della tenuta di alcune forme classicamente intese dello Stato (fra le più lampanti e attenzionate le rivendicazioni di regionalismo e/o federalismo e l’apparente crisi in cui pongono il concetto di sovranità - argomento su cui torneremo più avanti), non possiamo negare che esse si accompagnino ad un speculare irrigidimento autoritario del controllo sul territorio e da una tendenza alla centralizzazione delle forme di governo. 
È una polarizzazione che possiamo ritrovare trasversalmente nell’Unione Europea tanto quanto internamente ai singoli stati membri, in un flusso scalare dal livello locale a quello regionale. Non affermiamo niente di nuovo dicendo che centralizzazione e tecnologie di governo si rafforzano nello stato neoliberista: banalmente, ci sembra si stia palesando il tentativo di chiudere quella parabola di lungo termine che ha legato forma Stato e capitalismo globale e che ha sempre esplicitamente cercato di omologare lo stadio di ristrutturazione capitalistica dei paesi europei - formalmente indifferente delle resistenze e degli ostacoli interni.

Possiamo quindi affermare l’esistenza di un canale di influenza reciproca fra l’effettiva capacità di governabilità europea, quella dei singoli stati membri e i territori con i quali si instaurano effettivamente questi rapporti di potere? Possibile. Soprattutto nel momento in cui gli elementi solitamente additati quali sintomi della crisi dello Stato moderno sono in realtà riscontrabili trasversalmente in differenti tipi di istituzioni. Per esempio, in quale direzione si snoda il filo rosso che lega l’insolubile deficit di democraticità delle istituzioni europee - a causa del quale non si è mai riusciti ad inscenare il copione illusorio della rappresentatività - e i recenti ostacoli nel formare governi, se non stabili quanto meno duraturi, tramite gli strumenti classici della democrazia (non a caso, in paesi in cui tale scoglio è posto anche da un non-esaurimento dei movimenti e da rivendicazioni forti dal basso, quali Spagna, Grecia, Italia)?

Riprendendo il nostro ragionamento, ribadendo che la funzionalità al capitalismo è connaturato nello
sviluppo della forma Stato, riconosciamo anche l’esistenza di eterogeneità già date tra Stato e capitale. Il controllo che lo Stato esercita sul territorio tramite una comunità si contrappone infatti alla permanente deterritorializzazione del mercato globale, che perlopiù non può far riferimento ad una specifica e reale comunità di persone. Eppure, è imprescindibile sottolineare che se questa integrazione porta a delle frizioni fra elementi strutturali, lo fa esclusivamente nel momento in cui il capitale necessita dello Stato all’interno del suo dispositivo di potere.
Nello specifico in Europa, assistiamo ad uno Stato che viene definito in crisi, ma che si fa sempre più interventista nel salvare le banche, facendo pagare il prezzo di questi salvataggi alla società. Nell’era del governo tramite il debito, l’integrazione della forma Stato nel capitale si è acuita con la falsa panacea di crescente immissione di moneta nei mercati. Questo è la marca di fabbrica della politiche della Bce, nonché quella che è sempre stata la politica inflazionistica americana.
Non possiamo dimenticare in questo processo il livello di garanzia concesso all’Italia - per la posizione intermedia tra il ruolo di bacino di piccole imprese di fornitura alle grandi imprese tedesche e di partner commerciale con paesi ultra-neoliberalizzati e quello speculare di esportatore e committente rispetto a paesi in cui la ristrutturazione capitalistica si è inserita più tardi nella storia e con maggior violenza (in primis i paesi dell’area balcanica) - che ha comportato una maggiore centralità nelle politiche di quantitative easing, ossia un tipo di impegno maggior che in altri casi (quale quello greco) per salvaguardare l’arginamento del debito pubblico in tempo di crisi.

Tornando su quanto già evidenziato, il Referendum costituzionale si inserisce proprio in questo corridoio di ristrutturazione del capitale come definitiva messa sul mercato del debito italiano, che il capitale vuole rendere più attrattivo rispetto agli investitori tramite una promozione della time based competition, ossia l’ampiezza e la velocità con cui interessi esterni possono influire sulle decisioni politiche interne. Nell’ottica finanziaria, la tenuta della moneta unica europea non può contare solo sulle promesse di Draghi e sulla straordinarietà delle manovre della Bce (non prolungabili all’infinito), ma necessita ora nello specifico da parte del sistema italiano di un’effettiva apertura agli interessi internazionali, tanto quanto di una dimostrazione garantista di stabilità da parte del governo interno.

In questa cornice, che evolve storicamente a partire dalla sconfitta politica del lavoro, continua ad oggi un attacco per abbassare indistintamente gli stili di vita. In una realtà dei fatti di crescente polarizzazione sociale, per permettere un continuo e corrosivo adeguamento al ribasso delle forme di vita, diventa maggiormente necessaria una conformità di governo e una centralizzazione dei processi decisionali, che nella nostra zona-mondo ha trovato spunto di realizzazione nell’integrazione europea.
Si inserisce in questa centralizzazione europea (fisicamente dislocata nel nord del mondo) dell’esecutivo - deregolamentatrice in ambito economico, conformatrice rispetto all’universo sociale - la ristrutturazione strategica degli apparati statali di magistratura e polizia. Non a caso, dall’ultimo ciclo di mobilitazioni dell’Onda in poi abbiamo assistito ad un veloce evolversi della gestione di piazza da parte della polizia italiana, in termini retorici di lezione nordica appresa da quel sud un po’ arretrato, un po’ dal cuore paternalista e dal manganello facile (eppure l’innovamento della polizia italiana non si esaurisce nelle nuove tecnologie informatiche!).
Parallelamente, si accompagna - e ci sembra evidenza tangibile nel nostro paese - un’elevata velleità di razionalizzare la gestione della giustizia interna ad opera di una magistratura che vede aprirsi, nell’omologazione agli standard europei, l’occasione per strutturarsi come casta indipendente dal potere che alcune declinazione dell’esecutivo mantengono e dal potere cui ambisce invece una parte emergente del comparto amministrativo.

Abbiamo già sopra ricordato l’inevitabile distanza temporale dei posteri, che si fa necessaria per leggere il più ampiamente possibile fenomeni complessi, tanto quelli incentrati intorno alla nostra specifica soggettività, quanto quelli derivanti da una ristrutturazione a onde lunghe del capitale.
Nonostante ciò, sentiamo comunque la necessità di provare a leggere una serie di processi in atto - se non addirittura nella fase di primo sviluppo - tramite le coordinate che abbiamo appena tratteggiato. L’accentramento e l’irrigidimento dell’esecutivo che abbiamo più volte evidenziato nelle righe precedenti ci sembra incrociato orizzontalmente da due fuochi.
Aumenta, da una parte, la pressione di specifiche rivendicazioni regionali in termini di autonomia o federalismo. Con rimando a quanto già scritto, non è un fenomeno che possiamo interpretare come semplice discesa del potere dall’alto verso il territorio in cerca di un controllo più aderente alle specificità locali, né una concessione verso i cittadini in un processo di crescente democratizzazione. Partendo sempre dal perno dei concreti assetti produttivi, si svela così l’emersione dei regionalismi come una specifica richiesta di potere - in senso di prossimità - ricercata tramite un rifiuto delle istituzioni (pensiamo agli esempi delle borghesie imprenditoriali di medio livello della Catalogna e della Scozia).
Senza pretendere di dichiarare risolto un ambito di approfondimento che qui è solo abbozzato, ci sembra di poter raccogliere nuovamente quel filo da tessere che avevamo scorto nella matassa. In questo bisogno di prossimità infatti, lungo la storia di una forma Stato che abbiamo già definito dispositivo di potere per il capitale, ecco aprirsi lo spazio per inserirci, ecco apparire una crepa da forzare, il rampino con cui strappare realmente frammenti di potere.
Ecco perché, lo diciamo candidamente, non possiamo digerire un certo discorso sul diventare "banda di trasmissione tra i cittadini e le istituzioni", non in un mondo in cui è proprio questa banda di trasmissione - questo flusso scalare - che permette al capitale di accedere con corsia privilegiata alle nostre forme di vita.
 
Affermiamo ciò, forti di aver scorto il barlume di un altro fuoco che mette alle strette la capacità reale
della governabilità che vorremmo strappare alla controparte. Ci riferiamo ad una pressione che ultimamente non viene dal nostro angolo, di fronte alla quale alcuni di noi possono storcere il naso, che a volte può addirittura essere colta con maggior lungimiranza da personaggi politici che sono nostri espliciti avversari (e di cui mai smetteremo di smentire gli interessi di parte - non la nostra), ma che è espressione di un rifiuto - perché no, disilluso - rispetto ad ogni ulteriore forma di promessa istituzionale e di una significativa reattività ad un immaginario forte di riscatto soggettivo immediato.
Già si sono espresse le critiche di populismo di fronte al radicamento del m5s nelle metropoli (senza essere fraintesi, si potrebbe parlare altrettanto di Lega Nord in alcune province), ma se ci diamo come chiave di lettura di questo radicamento la specifica retorica antipolitica così come è stata percepita dalla società, non possiamo non vedere una disponibilità reale alla lotta di cui molti lamentano la mancanza. A maggior ragione con la prospettiva di voler giocare una partita di reale ingovernabilità in vista del Referendum, dobbiamo smettere di guardare il demagogo in cima al palco e osservare le persone che vi stanno sotto, consapevoli che è lì che si annida la forza capace di ribaltare qualsiasi palcoscenico.


 Referendum o barbarie

Continuando ad intersecare lo sguardo soggettivo ad  una dimensione più strutturale dello stato italiano, riteniamo necessario provare a calare questi ragionamenti nel passaggio del referendum costituzionale, il quale rappresenta un punto di passaggio nella restrutturazione dello Stato nel suo addattarsi alla dimensione della crisi capitalistica. 
La tornata referendaria che probabilmente caratterizzerà l'autunno,  potrebbe rimescolare le carte di una partita iniziata con i goveni tecnici di Monti e Letta, che hanno lasciato ben poche possibilità per i movimenti.

Sintetizzando, come già accenato, la  riforma costituzionale mira a snellire i processi decisionali e legislativi cercando di abbreviare i tempi e l'efficacia dell'esecutivo. Il tentativo in campo è quello di  accentrare il potere attorno al governo demolendo de facto l'impostazione data dalla carta costituzionale.
In sostanza l'obbiettivo più o meno palese è quello di portare avanti dei piani di riforma, dal welfare al lavoro, che con questo sistema potrebbero incorrere in parecchi intoppi parlamentari e in tempi lunghi per essere realizzate. Abbreviare l'iter di una legge vuol dire anche diminuire le possibilità di esprimere e organizzare un rifiuto sociale.

È abbastanza coerente l'immagine di questa riforma come un cavallo di Troia, che in realtà cela una probabile tornata di riforme lacrime e sangue.
Voluto fortemente dai vertici del governo europeo e della Bce, la riforma è il prezzo da pagare per non subire trattamenti visti già, per esempio, nella questione greca. 
Con il peggiorare delle condizioni del sistema bancario italiano queste pressioni europee non potranno che aumentare aprendo scenari che per l'Italia si erano intravisti all'inizio del governo Monti. Infatti, con l'aprirsi di quella fase e con l'arrivo di Renzi a palazzo Chigi, per via della difficile governabilità dovuta agli assetti elettorali, la messa in campo di grosse riforme di austerity si era dovuta di fatto diluire nel tempo. Questa necessità ripropostasi negli ultimi due anni ha portato il governo a varare il pacchetto di riforme Jobs Act - Sblocca Italia - Buona scuola le quali rendono bene l'idea di quale sia la necessità strutturale di tagliare drasticamente i costi “sociali” dello Stato italiano e il meccanismo di disciplinamento della forza lavoro, sia nella diemsione classica che in quella del precariato più o meno giovane.

Questo aumento delle misure di austerità  anche se si desse con forme differenti, che all'oggi non sono da escludere, ci restituisce un'esemplificazione di come il meccanismo della governabilità si stia in qualche modo trasformando, completando le trasformazioni neoliberiste. La revisione della carta costituzionale costituirebbe in questo caso un chiaro passo verso un'ulteriore cessione di sovrenità alle istituzioni europee, demolendo ancor di più gli spazi di mediazione della rappresentanza democatica, favorendo dall'altro lato una governabilità all'oggi in crisi.


La direzione dello Stato ridefinisce dall'alto, in modo  non lineare, i rapporti di forza tra il proletariato e la grande borghesia italiana, polarizzando un campo che negli ultimi decenni era caratterizzato dalla mediazione piuttosto che dall'imposizione e dallo scontro.
Questa aggressione parte però da un controutilizzo di un concetto quale "l'antipolitica". Il rifiuto radicale delle istituzioni dello Stato e ciò che esso rappresenta negli ultimi anni  si è radicalizato e diffuso. Quasto ha portato  il baricentro della partita del consenso sempre più sulla possibilità o meno di rappresentare una rottura con il passato e lo status quo. 

La riforma costituzionale veste i panni di un attacco alla casta  e di una riduzione dei costi della politica, ed aldilà della riuscita o no di questo gioco di prestigio, è chiaro che il consenso a questo modello di Stato è più che mai in crisi. 
Si può dire che la dimensione dell'antipolitica e dell'antagonismo alle istituzioni statali sia il carattere principale delle classi subalterne e rappresenti in qualche modo un punto di arrivo della crisi di mediazione in corso negli ultimi decenni.
In questo senso possiamo vedere questo carattere della composizione come una forza (antagonista) che non è rimasta immobile e continuerà a determinare fortemente la politica italiana. Nella possibilità di poter essere cambiata di segno, rappresenta nella sua ambiguità, una tendenza da curvare in senso rivoluzionario o un arma regalata al nemico.
Potenzialmente quando questa pulsione è esplosa in questi anni, aprendo delle seppur piccole finestre di conflitto reale, come possono essere state le rivolte dei forconi, l'abbiamo vista trasformarsi in istanze di cambiamento forti. Il fatto che, non solo in queste occasioni ma anche nel senso comune, la sfiducia nello Stato si traduca con la parola Rivoluzione, è un segnale della portata che può dispiegarsi nel campo dell'antagonismo.

Allo stesso tempo questa tendenza sta trasformando la soggettività, cancellando praticamente le possibilità di una nuova mediazione, perchè la sua spinta è talmente forte da agire sia dal basso, che all'inverso nella spinta che arriva dall'alto come risposta. 
Una sorta di cortocircuito dello Stato che mostra forse un irrigidimento e che disegna sempre di più campi contrapposti, invertendo una tendendenza che continuava da tempo. Se da un lato è più facile vedere i lineamenti della classe, dall'altro diventano palesi le strutture repressive e dello Stato rendendo chiaro il loro ruolo difensivo dell'attuale organizzazione del lavoro  e delle forze produttive.


Questo tentativo di ristrutturazione dello Stato si situa in una congiuntura particolare in cui questa necessità di irrigidimento istituzionale è accompagnata da una forte debolezza del governo Renzi, sia sul piano del consenso, che delle lobby che lo hanno sostenuto in questi anni.
Le elezioni amministrative consegnano di fatto la possibilità reale che in caso di elezioni il m5s possa arrivare al governo, aprendo scenari inediti che fanno tremare non poche poltrone a Bruxelles. 
Il PD è sempre più chiaramente il partito della nazione (e della borghesia), e se il centro destra si allinea, la lega e l'estrema destra non riescono a sfondare intermini elettorali. 
Il progetto di Salvini per ora non è riuscito. Ad una proposta di guerra tra poveri sembra comunque tenere una possibilità di rivolgere in modo verticale l'insopportabilità delle condizioni materiali dettate dalla crisi.

Sembra rompersi la tendenza dell'aspettativa al ribasso e il clima di rassegnazione che ha caratterizzato questi ultimi anni, dalla fine dell'Onda ad oggi. C'è, fra la gente, in maniera confusa e contradditoria, un'aspettativa. Un'aspettativa di cambiamento: ci si aspetta, anche se attraverso la delega e il voto o altre forme passive, che qualcosa nelle condizioni di vita cambi.
È un passaggio importante, forse solo una finestra di consapevolezza delle classi subalterne, che però, passando attraverso un referendum costituzionale che si preannuncia come un plebiscito a Renzi, potrebbe esplodere in una qualsiasi forma di rifiuto attivo. 

Questa dimensione dell'aspettativa del cambiamento è fondamentale. Sembra scuotere una
soggettività sopita, riplasmata nella crisi, nelle sue retoriche nella distruzione sistematica delle aspettativa di potersi realizzare con questo sistema economico e sociale.
Ma dove si situa questa aspettativa? Dove si è aperta la crepa più grossa? Dove non può più essere ricomposta per loro? 
Dal punto di vista della composizione della classe, salta all'occhio una non omogeneità di lettura di questo passaggio referandario, e con gradualità differenti sulle direttrici nord-sud, centro-periferia, metropoli-provincia mutano in modo ragguardevole le aspettative nella possibilità di mandare a casa Renzi. 
In questo senso però come tendenza generale tra il conscio e l'inconscio ci sembra di scorgere una spinta verso l'ingovernabilità da parte della classe, la quale si palesa in compotamenti differenti dal voto a dimensini individuali di rifiuto o fuga.
Anche se meno influnzata dalle dinamiche del voto, la dimensione giovanile della classe potrebbe essere in termini di potenza quella che dentro un meccanismo di attivazione potrebbe leggere una possibilità di riscatto dalla dimensione nichilista, autodistruttiva o omologante, che sta vivendo in questi ultimi anni.
Costruire una comunicabilità del nostro discorso contro il governo, praticabile dai giovani, capace di rappresentare una dimensione generazionale ci sembra una sfida da poter agire dentro il passaggio referendario.
Provando a vedere  i mesi autunnali come un volano per un allargamento del conflitto sociale e la radicalizzazione del rifiuto al governo e all'Europa,  crediamo si apriranno dei vuoti poltici, che in qualche modo dovranno colmarsi. 

Sfidare il presente rendendo la lotta di classe e il conflitto un programma capace di riempire questo vuoto che abbiamo provato a descrivere è, molto probabilente, la chiave per aprire una possibilità rivoluzionaria. 

Oroboro - Alcune note sparse sui tempi che viviamo